Route 66-Giorno 10 bis
Beh, questa secondo noi è la foto più bella della giornata!! Fabio: un vero cowboy!! umaaa ma muuu
Mazzoli in una pausa riflessiva...sembra un ciclista del giro della brianza!!
Christian che si avventura nel deserto!!
Inizia il deserto e Tony sfoggia la sua bella canotta tamarra!!
Lorenzo e Christian sotto la pioggia....di nuovooooooo!!
Ops...la strada è chiusa!!
Mazzoli e Lorenzo il posa Zoolander al "Chili" ristorante di Flagstaff (Arizona)
Più tardi il nostro arrivo al Grand Canyon...che esperienza!!!
Diario di bordo:
Come ogni epopea che si rispetti anche la saga del catabarro, prima o poi, doveva giungere ad un catartico epilogo. Dopo quasi 2000 miglia di sassi, polvere, pioggia, asfalto ed inversioni ad U da corte marziale, il pidocchioso frigorifero orizzontale su ruote è arrivato, finalmente, al doveroso capolinea, alleggerendo la truppa e le strade dell’Arizona di un peso smisurato, lento e macchinoso come certi centrocampisti messicani. Il giorno undici di questa folle migrazione verso il sole crescente si consuma quasi per intero nello svolgimento delle pratiche di pensionamento e di commiato dell’eroico fustone a benzina. Alle 8.15 del mattino il telefono dell’ennesimo Motel “Mignotta” Inn di Hollbrook è già caldo come un 899 di Jessica Rizzo. Servono tutto il carisma di Marco, la diplomazia di Lorenzo e circa 25 dollari di chiamate intracontinentali per inchiodare al muro gli omertosi impiegati della Cruise America e costringerli a riprendersi la loro dispendiosa caccavella a motore, prima della data firmata col sangue sul contratto. Solo dopo la colazione, innaffiata da un succo di mela che sembra brodo di dado, riusciamo a strappare una data, quella di oggi, ed un luogo per la riconsegna: Flagstaff, Arizona, a centouno miglia da qui. Ci muoviamo!
Il sole è ancora basso. Un debole vento da sud si strofina contro la giacca di pelle e fa pizzicare il naso come wasabi. L’Arizona ci vede impegnati e si limita a scorrere ai bordi della Interstate senza destare troppo interesse: terra, cespugli, rocce, pali del telefono. Mastichiamo coi pneumatici qualcosa come 60 miglia e stacchiamo le chiappe dalla sella solo all’uscita 201 Meteor City, dove City è un eufemismo per descrivere un piccolo autogrill rattoppato disperso nella steppa indiana, e Meteor indica la prossimità con un cratere grande come cento colossei, scavato nel deserto da un pezzo di universo in tempi preistorici. Mentre Marco scarica furtivamente sullo sterrato del parcheggio il cesso biologico del catabarro, il resto della comitiva lascia il proprio autografo a pennarello su una staccionata lunga 30 metri, macchiata da un murales che riproduce l’intero tracciato della 66. Osservo i landmarks sulla parete di legno, irrinunciabili pietre miliari stilizzate di ogni sixtysixter che si rispetti, e mi rendo conte che, fatta eccezione per l’arco di Saint Louis, gli altri ci mancano tutti. Ma che cazzo di strada abbiamo fatto fin qui? Riguardo indietro e scopro che il nostro tracciato personalizzato può annoverare altrettanti episodi indimenticabili sparsi per tutto il cammino. In questi undici giorni abbiamo dipinto una staccionata tutta nostra e questo mi fa sentire di nuovo importante.
Il Meteor Crater è, fondamentalmente, un buco nella steppa, una specie di secchio di roccia per il mocho, grande e lunare, che serve a ricordare all’uomo che nello spazio non siamo soli. L’ingresso costa quindici dollari. Io me li sento, la carovana ni, mi mandano in avanscoperta. Salgo, fotografo, filmo, mi emoziono misuratamente, sudo, riscendo, mi affaccio alla porta d’entrata e dico ai ragazzi, con tutto l’entusiasmo che sono capace di fingere, di aver assistito ad un’esperienza mistica e troppo new age! Il cratere vale il prezzo del biglietto! Poi, gettato l’amo, aspetto. Il primo pesce ad abboccare è un Tony in canottiera e ciabatte che si rende conto che li sto imbarcando solo dopo che la tizia dello sportello si è intascata i quindici verdoni. Tony non parla inglese, ma rivuole i suoi soldi indietro e comincia a tarantellare davanti alla cassa. Lo abbandoniamo al suo destino mentre si dimena e urla “no! Non! Italiano! Non capisco! Ridammi i soldi! Miei amici stronzi!”…
Servono un ponte di ferro pericolante, una strada in mezzo ad un bosco che sa di Vix Vaporub e altri venti minuti circa per incontrare la tranquilla cittadina montana di Flagstaff, 6000 piedi sul livello del mare. Pulita, ordinata, perpendicolare e parallela come tutte le tranquille cittadine americane, con i suoi bravi ipermercati, i suoi fast food a tema, le sue gas station tutte in fila come un’adunata, Flagstaff sa di aria pulita e terrazze piene di anziani come la Val d’Aosta d’estate. Proprio all’inizio della via principale c’è il Confort Inn, un grazioso hotel a due piani, tutto in legno, con zanzariere alle finestre e mammiferi impagliati alle pareti. Svuotiamo il catabarro di dieci giorni di incuria e disordine e lo tiriamo a lucido come la valva di una vongola. Al momento di salire in camera assistiamo al miracolo evangelico della moltiplicazione: le nostre borse sono praticamente raddoppiate. Abbiamo più colli a testa del mostro chiamato Hydra! Dannato shopping…
L’aeroporto di Flagstaff è poco più di una pista per gokart, ma è l’unico posto dove noleggiare un mezzo di trasporto su cui caricare le nostre valige fino a Los Angeles. Il successore del catabarro si chiama Sienna, un minivan otto posti bianco incisivo che fa i 110 senza implodere, si parcheggia senza gru, ma sprovvisto di gancio traino: anche il trailer in regalo cadrà nell’oblio come il mezzo che lo ha trascinato fin qui. Tocca a me sverginare il veicolo, Lorenzo mi precede in moto. Nel frattempo Marco, Christian e Tony rendono l’estrema unzione al catabarro in una microfficina sulla 66 cittadina. Il trapasso è rapido, nemmeno il tempo di cantare l’inno con la banda. Per buon peso il catabarrante locale ci rimborsa anche 485 dollari, ottimo viatico in vista di Las Vegas. Poi arriva l’acquazzone, la compagnia del catabarro si disperde e si ritrova in hotel.
Passiamo il pomeriggio a guardare le gocce d’acqua che disegnano labirinti sulla finestra. Marco computereggia, io scribacchio, gli altri sonnecchiano. La vacanza ha cambiato volto: niente catabarro, niente scadenze, niente ansia. Come era romantico però…
Le cameriere del Chili sono carine e simpatiche, la cassa toracica di manzo che mi appoggiano sulla tavola scivola in gola come nettare e si trasforma in incudine a contatto con le pareti dello stomaco. Mi sento un Flintstone. Innaffiamo tutto di birra opaca e tequila, poi saliamo in camera per prendere i caschi e cercare un po’ di vita notturna. Il sonno si fa cecchino e mi abbatte a faccia in giù sul letto. Quando mi sveglio Marco e Lorenzo in mutande giocano wireless con la PSP, Christian e Tony sono pronti e profumati per andare in centro. Mi scuoto, indosso qualcosa in base all’odore che emette, mi lascio trasportare dalla Sienna senza nemmeno aprire gli occhi. Scarico i piedi fuori dal Malone’s. Incredibile, dentro c’è vita!
La gloriosa Università del Grand Canyon ingrassa i pub della piccola downtown di Flagstaff di ragazzi di ogni età e provenienza. Beviamo un paio di birre, chiacchieriamo in quattro lingue del mondo con un paio di cavallone sedute su un fusto di birra sul marciapiede. Una Simmenthal ubriaca vestita da hyppie ci propone un party nel bosco a base di Bud Light e falò. Ridacchiamo, rifiutiamo, torniamo in hotel. Domani abbiamo un appuntamento… con il Grand Canyon!
Diario di bordo – giorno 10
Bella Santa Fe. Belle le strade, caratteristici gli angoli, suggestivi i porticati variopinti, comodo l’albergo, inebriante l’aria di montagna, ma come tutte le cose, dopo un po’… rompe il cazzo! Con questa massima di Alex Drastico si riparte alla conquista del West, in fuga da un battaglione di nuvole obese che sembra muoversi sulle nostre tracce. Nello stomaco il muffin alla carota più buono della mia vita e latte parzialmente scremato.
Truccate e parruccate dalle amorevoli manine pelose di Marco Cenerentola Mazzoli, le moto luccicano al sole come fragole di cristallo, ma soffrono la sete, il caldo e le buche, esattamente come noi. Facciamo una sosta in un’officina lungo la strada e dissetiamo la catena delle MV con un olio spray griffato Harley Davidson. In sella!
Scendiamo a uovo da Santa Fe alla pianura fissi a 70 su una discesa interminabile, come in apnea. Quando facciamo il primo rifornimento un quarto di arcobaleno aspira il nostro sguardo verso il cielo come il volo di un aquilone. Studiamo la mappa, sfogliamo la guida, la città del Duca non ci stuzzica neanche un po’. Di Albuquerque porteremo con noi soltanto il ricordo delle sue 19 uscite.
Facciamo pace con la Route lasciando le nostre ombre sul cartello d’ingresso nel vecchio Pueblo di Laguna, una discarica di persone e cose con una chiesa bianca d’intonaco che ci racconta storie di peones. Il New Mexico ci mostra le sue viscere. Lo riconosci nei peperoncini veri e finti appesi alle finestre, nei murales sotto le insegne della Philips 66, nel volto 100% azteco della cameriera, ovviamente grassa, che ci sbatte sulla tavola quattro quesadillas ed un chile dog piccantissimo, praticamente una molotov di maiale. Ma là fuori, lentamente, miglio dopo miglio, il paesaggio sta mutando, si evolve, il New Mexico è un Pokemon silenzioso e vuole metterci fretta. La pianura si muove, si digrigna, si accappona ed espelle assaggi di Grand Canyon, alti e solitari come crème caramel. Ai fianchi della carreggiata cactus e filo spinato germogliano da una lingua di magma nero, compatto, vomitato dal pianeta tanti milioni di anni fa.
La Route non si ferma, noi nemmeno e le neanche le nuvole. Ci tallonano ad ogni passo, ci pedinano, ci chiudono la ritirata, come se le stessimo trainando con un gancio verso la California. Abbandoniamo una fortezza di crostoni rocciosi fra le linee bianche e rosse di un piccolo passaggio a livello. Un treno lungo come una città ci viene incontro e ci saluta con il suo urlo metallico. Se le balene potessero gridare quella sarebbe la loro voce. Ci passa accanto anche uno scuolabus, giallo, con le antine di legno che si aprono a soffietto, proprio come nei telefilm degli anni ’80. Qualche miglio più avanti, in una vecchia gas station abbandonata, sfoghiamo la stanchezza con un po’ di sano vandalismo.
Mentre sorpasso un “carico eccezionale” mi piace pensare che Gallup, nonostante il nome da panettone, sia l’ultima stazione di questa giornata senza sosta. Sono stanco, mi fa male la schiena, voglio solo chiudere gli occhi, aperti per 200 miglia, sulle insegne luminose dei suoi mille motel ammassati sulla 66. Marco e Lorenzo si sdraiano sul trailer, si parla del passato e del futuro molto prossimo: troppe cose da vedere, poco tempo a disposizione. Non ci sono altre alternative, la decisione è presa, il tramonto del catabarro è poco più distante di quello che ora ci ricopre, soltanto una lama incandescente forgiata laggiù da un orizzonte di nubi.
Andare. Correre verso ovest, strappare coi pneumatici ancora 100 miglia a questa terra, sfidare l’oscurità, il vento, le traiettorie mai viste prima, trovare alla svelta un posto dove pensionare questa merda di camper ciuccia ottani e concedere al nostro viaggio una manciata di giorni in più, oltre la data di scadenza. Ecco la nostra agenda. La meta da raggiungere si chiama Hollbrook, Arizona. La strada da percorrere si chiama: notte! Marco, Lorenzo e Christian spalancano a tuono verso l’obbiettivo. Io e il catabarro contenente Tony, come una sorpresa della kinder, ci assettiamo sulle 70 mph e proseguiamo in linea retta, costanti, sotto un porticato di fulmini.
L’Arizona comincia con una curva, un gift shop indiano con più zanzare che nativi, un cartello con un sole giallo e rosso che ricorda al viaggiatore di essere arrivato nella terra del Grand Canyon. Quello che viene dopo dovrò vederlo in un documentario. Nelle orecchie c’è solo il suono della marmitta e la percezione di aver superato un nuovo fuso orario.
Si fa notte. Marco crolla sul letto del Motel. Il resto della comitiva cede al richiamo ipnotico dell’insegna giallo urina di Denny’s. Cheeseburger ed insalata. Continuiamo a farci del male. A presto…